Dazi sì, dazi no, dazi al 10%: Trump “indica” all’Italia i nuovi mercati export per il vino

La telenovela dei dazi a stelle e strisce ha scritto un nuovo capitolo, con un protagonista d’eccezione: il vino italiano. La prima mossa dell’amministrazione Trump, in questa nuova fase di tensione commerciale tra Stati Uniti ed Europa, si è concretizzata con l’imposizione di un dazio aggiuntivo del 10% sulle importazioni di vino italiano negli USA. A questa misura, già entrata in vigore, si aggiunge una sospensione temporanea – 90 giorni – di un ulteriore dazio del 10%, in attesa di ulteriori sviluppi.

Dazi sì, dazi no, dazi al 10%: Trump “indica” all’Italia i nuovi mercati export per il vino

Una decisione che pesa, considerando che il vino italiano fino a pochi giorni fa entrava nel mercato statunitense praticamente a dazio zero: 1% per i vini fermi, 3,5% per gli sparkling. Con la nuova imposta, il costo di accesso per i produttori italiani si impenna, mentre gli scenari futuri restano incerti e carichi di insidie.

Un colpo per l’export, ma anche un’opportunità

“Al di là di quanto detto più volte e da più parti durante i giorni di Vinitaly, e per quanto non si possa rinunciare al mercato statunitense, guardando il ‘bicchiere mezzo pieno’ si può dire che Trump ci sta esortando a diversificare di più i nostri mercati di sbocco”, spiega Denis Pantini, responsabile Agrifood e Wine Monitor di Nomisma.

Secondo il report Nomisma-UniCredit presentato proprio a Vinitaly, l’Italia è il Paese europeo più esposto all’export vinicolo verso gli Stati Uniti, con una quota pari al 24%. Seguono Francia (20%), Australia (14%), Spagna (11%) e Cile (10%). Un livello di dipendenza commerciale che, alla luce delle tensioni protezionistiche, diventa un rischio da gestire.

Diversificare per resistere: i nuovi orizzonti del vino italiano

Il messaggio è chiaro: è tempo di guardare oltre l’Atlantico. Pantini sottolinea l’urgenza di pianificare strategie di diversificazione, non solo attraverso l’iniziativa dei produttori, ma anche grazie al sostegno finanziario e promozionale delle istituzioni italiane ed europee.

Tra i mercati su cui puntare, si fanno strada quelli dell’Europa orientale, come Romania, Polonia e Repubblica Ceca, che stanno registrando tassi di crescita interessanti per i consumi di vino italiano. Ma soprattutto, le vere “tigri” del futuro sembrano essere quelle asiatiche: Corea del Sud, Vietnam e Thailandia, economie in espansione dove il made in Italy – anche enologico – è percepito come sinonimo di qualità ed esclusività.

Non vanno trascurati neppure i mercati latinoamericani come Messico e Brasile, dove l’aumento della classe media e il crescente interesse per la cultura enogastronomica europea offrono margini significativi di crescita.

Il vino italiano tra resilienza e visione globale

Nel breve periodo, l’introduzione dei dazi rappresenta una sfida complessa, specialmente per le piccole e medie cantine italiane che trovano negli USA uno sbocco consolidato e profittevole. Tuttavia, la reazione del comparto vitivinicolo non può essere solo difensiva.

Serve una strategia che unisca capacità di adattamento, innovazione nella comunicazione e presidio attivo dei mercati emergenti. Il vino italiano è già oggi un simbolo del made in Italy nel mondo, ma per rimanere competitivo in un contesto globale in continua evoluzione, dovrà imparare a parlare molte più lingue – e non solo in senso figurato.

Conclusione: Trump “provoca”, l’Italia risponde

In un paradosso tutto politico-commerciale, la politica protezionistica di Donald Trump potrebbe rivelarsi, se ben gestita, un catalizzatore per un’evoluzione necessaria dell’export italiano. Se da un lato impone un freno a uno dei mercati di riferimento, dall’altro spinge il settore vitivinicolo ad allargare lo sguardo, rompendo le abitudini e cercando nuove rotte.

Forse, senza volerlo, Trump ha indicato all’Italia la strada verso il futuro.

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